LE MURRINE DI FRANCHINI, MORETTI, BAROVIER
di Giovanni Sarpellon
E’ possibile far stare in un dischetto di vetro di tre millimetri di diametro i ritratti di Vittorio Emanuele II, Garibaldi e Cavour? L’incredibile risposta è sì. L’autore di questa prodezza fu Giacomo Franchini che, lavorando al fuoco della lampada usata dai perlai veneziani, fra il 1845 e il 1863 realizzò una serie di bacchette di vetro (o “canne”, come si dice a Murano) che in tutta la loro lunghezza racchiudevano un ritratto. L’arte di fabbricare canne di vetro contenenti un disegno è vecchia di oltre tremila anni; essa raggiunse il suo momento di massimo splendore nei due secoli attorno alla nascita di Cristo, per opera dei vetrai di Alessandria d’Egitto e di Roma, che erano in grado di preparare canne con una grande varietà di colori e disegni, che tagliavano poi a fettine e saldavano le une alle altre sotto l’azione del fuoco, riuscendo così a fabbricare piattini, ciotole ed anche vasetti di grande bellezza.
L’introduzione nel lavoro di fornace della canna da soffio (verso la prima metà del I secolo dopo Cristo) fece cadere in disuso questo genere di lavorazione, che riappare solo nel XIX secolo per opera dei vetrai muranesi. Fabbricare una canna di vetro contenente un disegno in tutta la sua lunghezza non è cosa molto difficile se ci si serve di uno stampo aperto nel quale pressare una massa di vetro preventivamente raccolta sulla punta di un’asta di ferro. Con questo sistema si fanno canne con decori semplici, generalmente a forma di stella o ruota dentata, che sono comunemente chiamati “millefiori”.
Un secondo metodo per fare una canna più complessa consiste nel disporre assieme più canne semplici e con queste formare un disegno; riscaldando molto lentamente il nuovo cilindro così formato si ottiene una nuova canna. Il terzo sistema di lavoro è molto più difficile: ad un primo nucleo di vetro caldo attaccato alla punta di un’asta di ferro, si aggiunge dell’altro vetro direttamente preso dal crogiolo, sagomandolo secondo la forma voluta, e costruendo il disegno finale un po’ alla volta.
Il merito della reintroduzione delle canne a millefiori nel lavoro dei vetrai muranesi spetta a Domenico Bussolin che, nel 1838, produsse una serie di canne molto eleganti. Poco dopo, Giovanni Battista Franchini ne riprese l’esempio e dette vita ad alcune centinaia di nuove canne elaboratissime e raffinate che usava poi per fabbricare spille, pendenti, manici di posate. Con pezzetti di queste canne, Pietro Bigaglia fece, nel 1844-45, i primi fermacarte, subito imitati dalle cristallerie francesi. Lo straordinario è che Giovanni Battista Franchini era un perlaio e lavorava quindi non in una fornace muranese, ma con gli strumenti propri della sua arte: una fiamma alimentata dal grasso animale di una lampada e rafforzata da un getto d’aria, usando piccole quantità di vetro rifuso. Il figlio Giacomo, facendo tesoro dell’esperienza del padre, si dedicò ad una impresa incredibile: preparare delle canne contenenti non solo disegni di vario genere, ma addirittura dei ritratti. Cominciò nel 1845 con il volto di una fanciulla di nome Angelina (la sua fidanzata?) e con una veduta del ponte di Rialto tanto suggestiva quanto esatta nei minimi particolari. Continuò poi, nel 1848, con il ritratto di Pio IX, e successivamente, nel 1860, con quello del primo re d’Italia, Vittorio Emanuele II: Seguì quindi una piccola galleria di ritratti dei personaggi illustri del tempo, che comprendeva quelli di Cavour, Garibaldi, Napoleone III e dell’imperatore Francesco Giuseppe d’Austria.
Ciò che stupisce, e che si direbbe impossibile se non fosse invece reale, è la dimensione dei lavori di Franchini: il ponte di Rialto è un ovale di 7 millimetri di diametro; del ritratto di Vittorio Emanuele sono conservati alcuni esemplari che arrivano a 3-4 millimetri. Il “segreto” di queste miniature è semplice da svelare: esso sta in una particolarità delle canne di vetro che, quando sono ben riscaldate in maniera uniforme, possono essere stirate senza che il disegno in esse contenuto si deformi pur diventando sempre più piccolo.
Giacomo Franchini raggiunse con il suo lavoro livelli di perfezione cui nessun altro arrivò. Egli non fu comunque l’unico in questo particolarissimo settore dell’arte vetraria. Vincenzo Moretti, tecnico vetraio della vetreria Salviati (ed in seguito della Compagnia Venezia-Murano), verso il 1870 si dedicò con passione allo studio dei frammenti degli antichi vetri romani che in quei tempi venivano riscoperti negli scavi archeologici finché, nel 1878, riuscì ad imitarli alla perfezione. Essi furono presentati all’Esposizione Internazionale di Parigi di quell’anno ed ottennero un grandissimo successo. Fu in quell’occasione che l’abate Vincenzo Zanetti, fondatore del Museo Vetrario di Murano e animatore della rinascita vetraria ottocentesca, usò la parola “murrini” per indicare quegli oggetti, richiamandosi ai vasa murrina di cui parla Plinio il Vecchio nella sua Historia Naturalis. Da allora, a Murano, ma poi in tutto il mondo, come “murrini” sono chiamati quei vetri che tecnicamente vengono detti “vetro-mosaico”, così anche “murrine” sono dette le fettine tagliate da una canna contenente un qualsiasi disegno.
Chi volle ritentare l’impresa di Giacomo Franchini fu Luigi Moretti, figlio di Vincenzo, che fra il 1888 e il 1894, dette vita ad una nuova serie di ritratti che comprendo anche quelli di Umberto I, Cristoforo Colombo, del Kaiser Guglielmo I e un volto di Madonna. I suoi lavori, pur pregevolissimi, sono meno accurati di quelli di Franchini a causa del diverso metodo di lavoro seguito. Egli, infatti, utilizzò il secondo dei metodi sopra ricordati: componeva a freddo il disegno accostando sottili cannelle colorate che, legate con un filo di rame, venivano lentamente riscaldate fino al punto di rammollimento e infine stirate in una lunga canna del diametro desiderato.
Anche nella famosa vetreria degli Artisti Barovier si produssero bellissime murrine. Dopo alcuni lavori di Giovanni, eseguiti attorno al 1880, le opere più belle furono realizzate dal di lui nipote Giuseppe negli anni fra il 1910 e 1915. Egli interpretò nel vetro il nuovo stile Liberty, eseguendo una notevole varietà di coloratissimi fiori, ora isolati e ora riuniti in eleganti mazzetti. Giuseppe Barovier era un maestro vetraio di altissimo livello e fu quindi per lui ovvio adottare nella fabbricazione delle murrine la tecnica più confacente alla sua arte: formava la canna stendendo progressivamente strisce di vetro prelevate direttamente dal crogiolo e modellandole finché erano ancora calde: un lavoro di grande maestria che immediatamente si apprezza osservando la complessità e la bellezza delle murrine realizzate. Il capolavoro di Giuseppe Barovier resta comunque la murrina del pavone, che riassume la raffinatezza artistica e la perizia tecnica di questo maestro vetraio che continua ad essere ricordato fra i maggiori. Essa fu presentata nel 1913 alla esposizione dell’Opera Bevilacqua La Masa e valse al suo esecutore l’appellativo di “mago del’arte vetraria”.
Con le murrine liberty di Giuseppe Barovier si conclude un ciclo nella storia di questi minuscoli capolavori: negli anni successivi cessano di essere oggetti in sé compiuti e vengono sempre più concepite e utilizzate come elementi decorativi in oggetti di vetro soffiato: così le utilizzarono gli stessi Giuseppe e Benvenuto Barovier, prima, e, successivamente, Ercole; così le utilizzarono i Fratelli Toso nella loro infinita produzione di vetri millefiori e tanti altri ancora fino ai giorni nostri.
Bisognerà poi aspettare l’anno 1989 per ritrovare a Murano un vetraio desideroso di cimentarsi in questa affascinante arte: sarà Mario Dei Rossi che, terminata la sua attività in fornace, creerà una nuova , bellissima serie di murrine con volti, fiori, animali e altri disegni ancora. Il suo esempio sarà poi seguito dal figlio Antonio che ha composto una già lunga serie di questi minuscoli ma grandi capolavori.
L’introduzione nel lavoro di fornace della canna da soffio (verso la prima metà del I secolo dopo Cristo) fece cadere in disuso questo genere di lavorazione, che riappare solo nel XIX secolo per opera dei vetrai muranesi. Fabbricare una canna di vetro contenente un disegno in tutta la sua lunghezza non è cosa molto difficile se ci si serve di uno stampo aperto nel quale pressare una massa di vetro preventivamente raccolta sulla punta di un’asta di ferro. Con questo sistema si fanno canne con decori semplici, generalmente a forma di stella o ruota dentata, che sono comunemente chiamati “millefiori”.
Un secondo metodo per fare una canna più complessa consiste nel disporre assieme più canne semplici e con queste formare un disegno; riscaldando molto lentamente il nuovo cilindro così formato si ottiene una nuova canna. Il terzo sistema di lavoro è molto più difficile: ad un primo nucleo di vetro caldo attaccato alla punta di un’asta di ferro, si aggiunge dell’altro vetro direttamente preso dal crogiolo, sagomandolo secondo la forma voluta, e costruendo il disegno finale un po’ alla volta.
Il merito della reintroduzione delle canne a millefiori nel lavoro dei vetrai muranesi spetta a Domenico Bussolin che, nel 1838, produsse una serie di canne molto eleganti. Poco dopo, Giovanni Battista Franchini ne riprese l’esempio e dette vita ad alcune centinaia di nuove canne elaboratissime e raffinate che usava poi per fabbricare spille, pendenti, manici di posate. Con pezzetti di queste canne, Pietro Bigaglia fece, nel 1844-45, i primi fermacarte, subito imitati dalle cristallerie francesi. Lo straordinario è che Giovanni Battista Franchini era un perlaio e lavorava quindi non in una fornace muranese, ma con gli strumenti propri della sua arte: una fiamma alimentata dal grasso animale di una lampada e rafforzata da un getto d’aria, usando piccole quantità di vetro rifuso. Il figlio Giacomo, facendo tesoro dell’esperienza del padre, si dedicò ad una impresa incredibile: preparare delle canne contenenti non solo disegni di vario genere, ma addirittura dei ritratti. Cominciò nel 1845 con il volto di una fanciulla di nome Angelina (la sua fidanzata?) e con una veduta del ponte di Rialto tanto suggestiva quanto esatta nei minimi particolari. Continuò poi, nel 1848, con il ritratto di Pio IX, e successivamente, nel 1860, con quello del primo re d’Italia, Vittorio Emanuele II: Seguì quindi una piccola galleria di ritratti dei personaggi illustri del tempo, che comprendeva quelli di Cavour, Garibaldi, Napoleone III e dell’imperatore Francesco Giuseppe d’Austria.
Ciò che stupisce, e che si direbbe impossibile se non fosse invece reale, è la dimensione dei lavori di Franchini: il ponte di Rialto è un ovale di 7 millimetri di diametro; del ritratto di Vittorio Emanuele sono conservati alcuni esemplari che arrivano a 3-4 millimetri. Il “segreto” di queste miniature è semplice da svelare: esso sta in una particolarità delle canne di vetro che, quando sono ben riscaldate in maniera uniforme, possono essere stirate senza che il disegno in esse contenuto si deformi pur diventando sempre più piccolo.
Giacomo Franchini raggiunse con il suo lavoro livelli di perfezione cui nessun altro arrivò. Egli non fu comunque l’unico in questo particolarissimo settore dell’arte vetraria. Vincenzo Moretti, tecnico vetraio della vetreria Salviati (ed in seguito della Compagnia Venezia-Murano), verso il 1870 si dedicò con passione allo studio dei frammenti degli antichi vetri romani che in quei tempi venivano riscoperti negli scavi archeologici finché, nel 1878, riuscì ad imitarli alla perfezione. Essi furono presentati all’Esposizione Internazionale di Parigi di quell’anno ed ottennero un grandissimo successo. Fu in quell’occasione che l’abate Vincenzo Zanetti, fondatore del Museo Vetrario di Murano e animatore della rinascita vetraria ottocentesca, usò la parola “murrini” per indicare quegli oggetti, richiamandosi ai vasa murrina di cui parla Plinio il Vecchio nella sua Historia Naturalis. Da allora, a Murano, ma poi in tutto il mondo, come “murrini” sono chiamati quei vetri che tecnicamente vengono detti “vetro-mosaico”, così anche “murrine” sono dette le fettine tagliate da una canna contenente un qualsiasi disegno.
Chi volle ritentare l’impresa di Giacomo Franchini fu Luigi Moretti, figlio di Vincenzo, che fra il 1888 e il 1894, dette vita ad una nuova serie di ritratti che comprendo anche quelli di Umberto I, Cristoforo Colombo, del Kaiser Guglielmo I e un volto di Madonna. I suoi lavori, pur pregevolissimi, sono meno accurati di quelli di Franchini a causa del diverso metodo di lavoro seguito. Egli, infatti, utilizzò il secondo dei metodi sopra ricordati: componeva a freddo il disegno accostando sottili cannelle colorate che, legate con un filo di rame, venivano lentamente riscaldate fino al punto di rammollimento e infine stirate in una lunga canna del diametro desiderato.
Anche nella famosa vetreria degli Artisti Barovier si produssero bellissime murrine. Dopo alcuni lavori di Giovanni, eseguiti attorno al 1880, le opere più belle furono realizzate dal di lui nipote Giuseppe negli anni fra il 1910 e 1915. Egli interpretò nel vetro il nuovo stile Liberty, eseguendo una notevole varietà di coloratissimi fiori, ora isolati e ora riuniti in eleganti mazzetti. Giuseppe Barovier era un maestro vetraio di altissimo livello e fu quindi per lui ovvio adottare nella fabbricazione delle murrine la tecnica più confacente alla sua arte: formava la canna stendendo progressivamente strisce di vetro prelevate direttamente dal crogiolo e modellandole finché erano ancora calde: un lavoro di grande maestria che immediatamente si apprezza osservando la complessità e la bellezza delle murrine realizzate. Il capolavoro di Giuseppe Barovier resta comunque la murrina del pavone, che riassume la raffinatezza artistica e la perizia tecnica di questo maestro vetraio che continua ad essere ricordato fra i maggiori. Essa fu presentata nel 1913 alla esposizione dell’Opera Bevilacqua La Masa e valse al suo esecutore l’appellativo di “mago del’arte vetraria”.
Con le murrine liberty di Giuseppe Barovier si conclude un ciclo nella storia di questi minuscoli capolavori: negli anni successivi cessano di essere oggetti in sé compiuti e vengono sempre più concepite e utilizzate come elementi decorativi in oggetti di vetro soffiato: così le utilizzarono gli stessi Giuseppe e Benvenuto Barovier, prima, e, successivamente, Ercole; così le utilizzarono i Fratelli Toso nella loro infinita produzione di vetri millefiori e tanti altri ancora fino ai giorni nostri.
Bisognerà poi aspettare l’anno 1989 per ritrovare a Murano un vetraio desideroso di cimentarsi in questa affascinante arte: sarà Mario Dei Rossi che, terminata la sua attività in fornace, creerà una nuova , bellissima serie di murrine con volti, fiori, animali e altri disegni ancora. Il suo esempio sarà poi seguito dal figlio Antonio che ha composto una già lunga serie di questi minuscoli ma grandi capolavori.